The International School for Holocaust Studies
Testimonianza di Wanda Padovano* (0.3/3166)
Sono nata a Bologna il 7 settembre 1896, figlia di Armando Yacov Padovano e di Ada Bemporad Padovano.
Due miei fratelli, Renato e Giorgio e mia sorella Laura dimorano negli Stati Uniti. Mio fratello Mario risiede in Israele. Ho frequentato tutte le scuole, dal giardino d’infanzia alla fine dell’Università a Firenze dove la mia famiglia si era trasferita pochi mesi dopo la mia nascita.
Appartengo ad una famiglia completamente ebrea, che viveva in Italia da moltissime generazioni. I miei nonni e i miei genitori avevano sempre partecipato con interesse alla vita culturale e patriottica italiana, perché mia madre era di una famiglia di editori ben nota - Bemporad - e mio padre che aveva frequentato l’Accademia militare di Torino, era stato ufficiale per molti anni e richiamato in servizio con incarichi di fiducia durante la prima guerra mondiale.
Durante i miei anni di studio nelle scuole pubbliche italiane io, che mi professavo sempre ben dichiaratamente ebrea, non ricordo di aver avuto in mezzo a compagni di altra religione, problemi speciali o trattamento diverso dagli altri. Lo studio mi era facile e piacevole, i risultati buoni; i rapporti con compagni e maestri in generale cordiali e simpatici.
A vent’anni ho conosciuto all’Università, nella facoltà di Lettere, un compagno di studi Giacomo Sinigaglia, ebreo entusiasta di tutti i problemi ebraici, già allora pieno di interesse per la rinascita dello Stato e della lingua d’Israele, ma studioso nello stesso tempo del mondo classico, greco e romano, della letteratura e dell’arte italiana e ci siamo amati con tutto l’ardore della nostra giovinezza. Allora l’ebraismo, che era per me un profondo sentimento religioso, si è trasformato in qualche cosa di diverso e vi si è aggiunto l’interesse per la terra d’Israele. L’uomo che amavo e con cui mi preparavo a trascorrere la vita, sentiva così fortemente l’attaccamento alla terra in cui vivevamo, come molti della nostra generazione, che non esitò a fare il suo dovere di ufficiale, affrontò il pericolo con mirabile coraggio e cadde combattendo nei giorni di Caporetto, a capo dei suoi soldati.
I pochi superstiti della sua compagnia parlarono e scrissero di lui con commossa ammirazione.
Non sono una donna eroica e non c’era niente al mondo, nessun riconoscimento che potesse compensarmi del sacrificio della sua e della mia vita, ma questo sacrificio di allora ha reso ancora più grave l’amarezza che ho provato per le leggi razziali emanate in Italia nel periodo 1938-1945 e particolarmente per la persecuzione del 1943-45.
Dopo aver ottenuto nel 1921 la laurea in Lettere nell’Università di Firenze (Filologia classica) e un diploma speciale di attitudine all’insegnamento del latino, presi parte a Roma a diversi concorsi generali e speciali ed ebbi una cattedra per l’insegnamento delle materie letterarie nei ginnasi italiani, prima a Bologna e, dopo un anno, a Firenze. Il mio insegnamento, che facevo con molta passione, mi dava soddisfazione. Al Ginnasio “Michelangelo” di Firenze dove insegnai per più di 13 anni, ero ricercata dagli allievi e dalle loro famiglie che mi stimavano e mi volevano bene. Nel 1932 il Ministero mi dette una promozione anticipata per meriti speciali.
Ma quando l’influenza tedesca iniziò a farsi sentire in Italia, nuovi problemi si presentavano alla coscienza di ogni ebreo. Tuttavia, continuai il lavoro fino al settembre 1938, quando con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fui licenziata. Pochi giorni dopo che avevo ricevuto la lettera ufficiale di licenziamento, un mio ex-preside mi mandava una calda ed affettuosa lettera per confermarmi la sua amicizia e la sua solidarietà! Ma la realtà era quella che era!
Nella mia situazione, di essere esclusi dalle scuole pubbliche, si trovavano anche i ragazzi ebrei di Firenze e molti dei miei amici me li consegnarono immediatamente perché continuassero il ginnasio con me. Ma i gruppi divenivano ogni giorno più numerosi, ed io, che non potevo accoglierli tutti in casa mia, accettai con molto piacere l’invito della Comunità di Firenze che voleva me e miei allievi nella scuola media ebraica allora apertasi. Nelle gravissime difficoltà di quegli anni, delle quali soltanto chi lavorava là dentro poteva rendersi conto, riuscimmo sotto la guida di un esperto professore, il prof. Scaramella[1], a fare sì che i nostri allievi studiassero con profitto, si presentassero agli esami pubblici come la legge allora permetteva e non perdessero anni di scuola. I miei colleghi ed io ci dedicammo con ogni sforzo ad aiutarli perché la loro vita non fosse troppo diversa da quella degli altri ragazzi della loro età, ma non potevamo fare molto in quelle circostanze.
La situazione precipitò, divenne gravissima l’8 settembre 1943, quando l’armistizio fu proclamato e i tedeschi si diressero verso di noi. Un brivido di terrore mi scosse. Che cosa si preparava per gli Ebrei d’Italia? Forse io sola nella mia famiglia avevo un’idea chiara degli orrori nazisti. Ero già stata tre volte in Palestina, la prima, nel 1933, avevo visto con pietà i primi profughi dalla Germania, le altre due volte nel 1938 e nel 1939, venuta a vedere la famiglia Sinigaglia, a cui ero affettuosamente legata, avrei potuto ottenere il permesso di restare e come lo avrei voluto! Ma come potevo lasciare in Italia i genitori anziani in tempi tanto pericolosi? I miei fratelli erano per fortuna già partiti, due per l’America e uno era venuto a stabilirsi qui in Palestina. Mia sorella, che era in Inghilterra, tornò in quei giorni anche lei a Firenze ed affrontammo insieme la nostra sorte. Bene facemmo, anche se questo ci ha procurato un periodo di tante sofferenze. Mio padre e mia madre non si rendevano conto della gravità del pericolo. Abituati tutta la vita ad essere rispettati da Ebrei e non Ebrei, come potevano pensare che un vento di follia avrebbe invaso e sconvolto così la mente degli Italiani? Ma i tedeschi erano ormai a Firenze e si diceva che avessero già in mano le liste degli Ebrei. Non c’era tempo da perdere. Con molta energia ed un po’ di violenza obbligai mio padre e mia madre a lasciare la nostra casa, a loro tanto cara, e in ordine sparso ci recammo presso amici che abitavano dal lato opposto della città. Ma quella non poteva essere che una sistemazione provvisoria e il giorno seguente partimmo per un paesetto di campagna dove la popolazione ci conosceva e ci voleva bene. Prudenza o imprudenza? In quei tempi era difficile sapere se si indovinava la via giusta per sfuggire o no. Viaggio infernale: paura di essere riconosciuti, treni zeppi di militari che fuggivano da tutte le parti, proteste contro le donne che si mettevano in viaggio in quei giorni (come se lo facessero per piacere). Finalmente arrivammo a casa di amici fedeli e riprendemmo fiato un momento.
Ma presto fummo avvertiti che era meglio cambiare dimora e di notte altri buoni amici ci vennero a prendere e ci chiusero nella loro casa, facendo tutto il possibile perché nessuno dei vicini arrivasse a sospettare la nostra presenza.
Tuttavia il paese era piccolo e la possibilità di essere scoperti era grande. Gli abitanti avrebbero tutti saputo tacere? Ritornammo a Firenze e ci separammo. Per mio padre era molto difficile trovare una sistemazione. Sicuro di non avere niente da nascondere nella sua vita di uomo onesto, buono, cordiale parlava volentieri con tutti e gli sarebbe stato impossibile cambiare il suo nome e tanto meno usare una tessera falsa. Mi venne in aiuto il primario dell’ospedale, prof. Comolli, padre di un mio alunno che, dicendo di voler curare mio padre di alcuni disturbi, lo fece entrare nell’ospedale in una corsia comune, tra molti altri pazienti e lo curò, lo fece curare per molti mesi in modo mirabile. Mio padre purtroppo morì l’8 maggio 1944, ma in quel periodo ben pochi malati, anche non ebrei, poterono avere l’assistenza che il prof. Comolli diede a mio padre.
Mia madre ebbe l’ospitalità di amici di vecchia data che la tennero affettuosamente in casa loro, malgrado il pericolo che correvano e le gravissime minacce pubblicate ogni giorno sui giornali contro chi aiutava un ebreo.
Mia sorella ed io ci presentammo ad un convento della città. La superiora senza un attimo di esitazione ci accolse e ci aiutò, come già aiutava molti altri ebrei lì raccolti. Quando la ringraziammo, ci disse con molta semplicità che non faceva altro che seguire il suo cuore e le direttive avute dai suoi superiori. Nello stesso convento si trovavano nostre parenti ed amiche carissime, la moglie e la sorella del Rabbino Nathan Cassuto con i loro bambini.[2] Quando giunse la notizia che il giovane e coraggioso Rabbino era stato deportato, soffrimmo con loro. Sua moglie doveva poco dopo seguire la sua sorte e, miracolosamente salvatasi dai campi di concentramento, veniva più tardi in Israele a rivedere i suoi bambini e a morire tragicamente nel convoglio che andava all’Università.
Dopo la razzia nel Convento del Carmine a Firenze, in cui furono deportati dai nazisti e dai fascisti, più di 30 ebrei, la superiora ci chiamò e con emozione ci disse che per lo stesso spirito di carità con cui aveva accolti pochi giorni prima, doveva ora cercare di farci andar via: i tedeschi e i militi fascisti potevano arrivare da un momento all’altro. Ci fece scendere nei sotterranei della chiesa e cercò immediatamente di trovare una sistemazione fuori per i bambini più piccoli, (c’erano due neonati), poi fece uscire noi a pochi per volta negli intervalli fra un bombardamento e l’altro. In quel momento le bombe ci sembravano il meno grave dei due pericoli.
Mia sorella e io ci avviammo verso il Viale dei Colli, incerte su dove dirigerci. Finimmo per andare nella casa dove era la mamma, ma sapevamo che sarebbe stato imprudente restare lì in tre e pensammo di partire per Roma. Forse in un’altra città sarebbe stato più facile nasconderci perché non eravamo conosciute, forse lì gli alleati sarebbero presto arrivati….
Ma a Chiusi, a tre ore di viaggio da Firenze, il treno si fermò definitivamente ed in quel dicembre 1943 freddo e piovoso, restammo con altri viaggiatori a passare la notte in una casa diroccata dalle bombe. Alcune persone che erano lì afferrarono le porte e le finestre rimaste per accendere il fuoco. Era la prima volta che vedevo questa smania di gettarsi su tutto quello che si poteva trovare e mi fece effetto, ma poi ho visto cose ben peggiori: distruggere senza scopo e utilità.
[…][3]>. Trovammo finalmente alloggio in una brutta e povera casa di un quartiere popolarissimo del mercato. La padrona di casa, napoletana, aveva bisogno di denaro: ci chiese un prezzo alto, capì, ma non indagò, non volle nemmeno sapere il nostro nome e ci accolse come sfollate da un paese di campagna. Nei mesi che passammo lì avemmo molta paura, ma nessuno ci tradì e tirammo avanti alla meglio. Intanto per non so quale spiata, un giorno i fascisti erano andati a cercare mia madre. Per una fortunata combinazione, proprio in quel periodo avevo trovato anche un altro rifugio verso le Cascine, una parte diversa di Firenze e ce l’avevo mandata a passare qualche sera. Così i nostri amici poterono dimostrare che in casa loro non c’era nessuno, ma ancora una volta sentimmo che eravamo sempre sul filo del rasoio! E pensammo che era meglio far perdere le tracce. Altri conoscenti al Campo di Marte ospitarono allora nostra madre.
Alla fine del luglio 1944 i tedeschi fecero saltare i ponti sull’Arno. Nuovo terrore. Gli alleati erano alle porte e ben presto il centro di Firenze divenne un punto di lotta tra inglesi e tedeschi. Sui tetti delle case passeggiavano spaventati e minacciosi fascisti, antifascisti, giovani ed adulti invasi da terrori diversi. Mia sorella ed io raggiungemmo la nostra mamma. Ma proprio nei primi giorni di agosto fu ucciso un tedesco nelle vicinanze del Campo di Marte e per rappresaglia furono fatte saltare alcune case vicine a quella in cui abitavamo.
Ma si avvicinava il giorno della liberazione. In un sotterraneo con molti altri sentivamo il passo pesante delle truppe tedesche che uscivano dalla città. Avevamo il terrore delle ultime violenze e le mamme chiudevano a forza le bocche dei bimbi che piangevano, perché nessun suono tradisse la nostra presenza. E finalmente l’incubo finì. La città era rovinata, avevamo perduto tutto, eravamo senza acqua e con poco pane, ma eravamo ancora vivi. Quando, pochi giorni dopo, la brigata palestinese cominciò a percorrere la città distribuendo un po’ d’acqua, fu accolta con entusiasmo. Si incominciò ad imparare la parola Shalom. Un soldato ci portò perfino un pezzo di sapone ed un mezzo fiasco di caffè e di latte, che dividemmo con gioia con molte persone.
Ci vollero dei mesi prima di poter riprendere un po’ di vita, diciamo normale, ma dovevamo ricominciare dal nulla e tutti eravamo assai scossi. I problemi materiali e morali erano gravissimi. La nostra casa era stata distrutta dai bombardamenti, mobili e libri portati via da fascisti e nazisti, la famiglia dispersa in varie parti del mondo e mancava l’energia per riprendere la vita di prima. Io avrei potuto riavere il mio insegnamento, ma il mio entusiasmo era spento e mi mancava la forza. Mia madre e mia sorella volevano raggiungere i miei due fratelli che erano negli Stati Uniti e che già preparavano i documenti per chiamarle. Io potevo partire per la Palestina dove un altro fratello con la sua famiglia era stabilito. Mi aspettava, lo sapevo, una vita dura e difficile, ma volevo ritrovare me stessa e il mio equilibrio.
Mi è stata necessaria una grande forza di volontà per resistere e superare tanti ostacoli, ho dovuto fare molte rinunce, adattarmi in un’età avanzata ad una vita diversa da quella a cui ero stata abituata, ho sofferto di nuovo durante la guerra di indipendenza, ma ho visto nascere lo Stato d’Israele, ho visto crescere una gioventù ebraica coraggiosa robusta e libera (anche troppo nella vita quotidiana), ho visto sorgere villaggi, città, giardini e boschi in questa terra che nel 1933, nel mio primo viaggio avevo vista in gran parte coperta di sabbia. E sono contenta di essere venuta qui, dove ho ritrovato mio fratello, la sua famiglia ed una nuova generazione e molti amici carissimi di vecchia data. In parte con il loro aiuto, sono riuscita a continuare l’attività che mi piace: l’insegnamento dell’italiano in alcuni corsi e quello del latino agli studenti dell’Università di Tel Aviv, nella facoltà di legge. Ho cambiato la lingua di queste ultime lezioni, ma l’argomento è lo stesso.
Il ricordo del periodo delle persecuzioni non si potrà mai cancellare nella mia memoria né il dolore che un paese come l’Italia, simbolo per me della più alta civiltà, abbia accettato di legalizzare nei tempi moderni degli orrori che hanno superato i più terribili orrori dell’oscuro Medioevo. Non importa se il numero dei deportati e degli uccisi è stato inferiore a quello di altri paesi, perché gli Ebrei erano in Italia meno numerosi. Il fatto in sé rimane ugualmente grave.
Ma in questo tragico periodo della mia vita non ho perso la fede nell’umanità. Se ho conosciuto la crudeltà, l’egoismo, la viltà, ho potuto anche conoscere più di molti altri ai quali le cose andavano meglio, il valore dell’amicizia, della solidarietà umana, della generosità. Persone di ogni condizione sociale, d’ogni grado di cultura, d’idee differenti hanno affrontato per i miei e per me i rischi più gravi, hanno esposto al pericolo la via loro e - cosa più grave - la vita dei loro cari, ci hanno fornito viveri, privandosene loro stessi, ci hanno aiutato, insomma, in ogni modo, spesso anche dietro suggerimenti e consigli di ecclesiastici coraggiosi.
Ai nostri amici di quei duri tempi va il mio pensiero grato né dimenticherò quanto i miei scolari e le loro famiglie hanno cercato di fare per me anche dopo che lasciai la scuola pubblica.
Per merito loro il mio legame spirituale con l’Italia di oggi è tornato ad essere vivo e forte e desidero ricordare qui i nomi di alcuni di questi amici, nella speranza di vederli un giorno in visita in Israele a piantare un albero nel Viale dei Giusti:
- Dottor Mario e Mimi Macciani;
- Cesira Galeotti, compagna fedelissima della nostra famiglia;
- famiglia Gramigni;
- Francesca Comucci Milani;
- famiglia Damilano e tanti altri.
* Wanda Padovano, insegnante fiorentina. Testimonianza non datata.
[2]Sulle vicende di Natham Cassuto e della sua famiglia cfr. il volume bilingue - in italiano e in ebraico - di Scritti in memoria di Nathan Cassuto, a cura di Daniel Carpi, Augusto Segre, Renzo Toaff e David M. Cassuto, Kedem - Yad Leyakkirenu, Gerusalemme 1986.
[3]Manca una riga nella quale, probabilmente, si ricorda il ritorno a Firenze.